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COME PINOCCHIO

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 COME PINOCCHIO

Un giovane villico del tempo che fu, quando i nostri avi indossavano cappelli mosci e calzavano le ciocie, se ne andava verso il paese lieto e garrulo, era il giorno della fiera, un giorno di festa per tutti, paesani e campagnoli. Il nostro amico godeva del suo giorno libero, ci andava solo per curiosare e incontrare persone, vedere animali, oggetti e tutte le stranezze che arrivavano sui banchetti a stuzzicare la curiosità e il desiderio dei visitatori, non aveva neanche un carlino da spendere, si divertiva lo stesso. Saltellava fischiettando per prati e campagne, attraversando fondi coltivati e costeggiando boschi immensi che coprivano il territorio, ricchi di vegetazione ma anche di animali non sempre docili con l’uomo. Ogni tanto si piegava a raccogliere un frutto selvatico: more, spinapùdece, scèscele, quello che trovava sul percorso, senza troppe pretese, così tanto per mettere qualcosa nello stomaco. Vicino al bosco notò un capanno, nu pagghiàre, e un pozzo, fece un fischio alla pastorale per richiamare il padrone, ma non c’era nessuno, intorno al pozzo c’era un orto che era stato sfrattato, non era rimasto granché. Si soffermò a guardare, capita sempre che un frutto, un pomodoro, un cespo di insalata rimanga sul terreno, ancora recuperabile. Scercolando per l’orto trovò un cespo di lattuga non proprio da buttare, c’era un certo appetito, lo raccolse gli dette una scotolata e dopo aver buttato le foglie esterne più dure e rovinate, mangiò con gusto le foglie interne tenere e dolci. Terminato il piccolo pasto gli scappò un bisognino liquido e lo fece divertendosi a mirare le foglie scartate, bagnandole del suo caldo liquido. L’ora calda gli fece venire una certa papagna e si poggiò sotto un albero all’ombra per schiacciare un pisolino, non aveva fretta. Svegliatosi dopo un po’ sentì lo stomaco che borbottava chiedendo cibo. Si guardò intorno, ma non c’era più nulla da mettere sotto i denti, solo rifiuti e scarti, fu allora che lo sguardo cadde sopra le foglie di lattuga scartate prima che intanto si erano asciugate al sole. Rimase pensieroso a guardare le foglie destinatarie del suo getto caldo, considerando la situazione. Ma sì, in fin dei conti era roba sua, e come Pinocchio che aveva scartato le bucce e il torsolo della mela per riprenderle e mangiarle dopo, e che lui non poteva nemmeno conoscere, raccoglieva le foglie, una alla volta, la guardava ben bene per vedere se era asciutta: “Suse a chèsse non so’ pesciate" diceva e la mangiava. Morale della favola: Non disprezzare niente e nessuno, prima o poi potresti averne bisogno. Michele GALANTE Agosto 2020

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